L'area archeologica di Sant'Omobono alle pendici del Campidoglio
Le ricerche archeologiche nell’area della chiesa di Sant’Omobono hanno avuto inizio con A.M.Colini nel 1937. Alle pendici meridionali del colle capitolino, a seguito degli interventi urbanistici del regime fascista tesi a trasformare la città, furono portate alla luce testimonianze monumentali delle diverse fasi repubblicane e imperiali del santuario di Fortuna e di Mater Matuta. Le indagini proseguirono in profondità per consolidare le fondazioni della chiesa e in questa circostanza avvenne il recupero di importanti resti ascrivibili alla fase arcaica dell’area sacra. La rilevanza delle scoperte consentì di salvaguardare l’area archeologica dalle nuove costruzioni e permise in tempi successivi ulteriori indagini, che si sono protratte fino a nostri giorni.
Nel 1959 un importante scavo fu condotto dal Gjerstad, all’esterno dell’abside della Chiesa, che consentì di ottenere ulteriori informazioni stratigrafiche. Gli anni più fervidi di attività furono però quelli compresi tra il 1960 e il 1980 quando, sotto la direzione dello stesso Colini, le ricerche furono svolte dagli archeologi Pisani Sartorio, Virgili e Mercando. Durante gli anni ‘90 del Novecento le ricerche furono limitate ad alcune indagini, interne alla chiesa, dirette dagli archeologi Mucci e Ramieri. A partire dal 2009 l’area archeologica è al centro di un progetto di ricerca che vede la collaborazione della Soprintendenza Capitolina con il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Il programma ha previsto un riesame dell’ampia documentazione di archivio e dei reperti delle precedenti campagne, ed è inoltre in fieri la pubblicazione integrale del sito archeologico al fine della sua piena valorizzazione.
L’area archeologica di Sant’Omobono si trova in prossimità del Tevere, vicino all’Isola Tiberina, in una situazione ambientale che si è evoluta nel corso del tempo in seguito alle trasformazioni portate dall’impatto umano e dall’espansione della città. La situazione attuale risulta pertanto molto diversa da quella antica, che doveva essere caratterizzata da un corso fluviale ad una quota molto più bassa con una riva sabbiosa su cui si affacciavano i templi arcaici. Le frequenti piene del Tevere costituivano un problema per l’intera area, che era frequentata fin dall’Età del Bronzo. In origine il fiume aveva un corso differente da quello attuale ed era in diretto rapporto con l’area, offrendo un facile approdo che fu scelto per la realizzazione del Portus Tiberinus.
Fu questa la decisione che pose la Roma delle origini all’interno della rete di traffici commerciali nel Mediterraneo. Il fiume infatti, navigabile fino alla foce, rappresentava una porta di accesso eccezionale, prerogativa indispensabile per lo sviluppo della civiltà urbana. I livelli preistorici della città sono molto difficili da raggiungere in quanto le stratigrafie si trovano a notevole profondità, obliterate da strade e costruzioni moderne che non possono essere rimosse per svolgere scavi. Nell’area archeologica, nel corso di alcuni carotaggi, è stato possibile raggiungere stratigrafie indisturbate riferibili al tardo Bronzo, poste alla profondità di circa 6 m, prima testimonianza tangibile dell’occupazione del sito. È verosimile ritenere che diversi reperti inquadrabili nelle Età del Bronzo e del Ferro, scoperti in strati più recenti nell’area, siano riferibili a stratigrafie localizzate nell’area circostante il sito, testimonianza di un’occupazione strettamente connessa con il fiume e con il guado dell’isola Tiberina. Ad una fase successiva risalgono gli strati scoperti da Gjerstad che si collocano tra la fine del VII secolo e gli inizi del VI secolo a.C. La presenza di intonaco di capanna ha fatto ipotizzare l’esistenza di edifici, ma nessuna traccia di essi è stata finora rilevata. Ulteriori ricerche dovranno verificare l’eventuale esistenza di stratigrafie relative alle prime fasi di occupazione.
(testo a cura di Carmine Ampolo).
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