Il Pigneto, set naturale di "Roma città aperta"
Quando Roberto Rossellini decide di girare ROMA CITTA’ APERTA sa che dovrà fare tutto con pochi mezzi. “La pellicola la dovevamo comprare a pezzetti, praticamente per strada”, racconta durante un’intervista. È orgoglioso di fare un film fuori dal teatro di posa, fuori dagli studi di Cinecittà. Vuole che quei 95 minuti siano utili agli spettatori, socialmente utili. È il primo ad entrare nei cortili del prenestino con la troupe: il cortile in particolare è quello enorme del palazzo di via Montecuccoli 17, già incluso tra le “case convenzionate” volute da Mussolini alla fine degli anni ‘20.
“I fatti e i personaggi di questo film pur ispirandosi alla cronaca tragica ed eroica di nove mesi di occupazione nazista, sono immaginari. Pertanto, ogni identità con fatti e personaggi reali e da ritenersi casuale”. Così inizia il film, ma le citazioni del regista sono più che evidenti. La prima è la scena di Pina, interpretata da Anna Magnani, che corre incinta disperata dietro la camionetta che ha appena prelevato l’uomo che deve sposare nello stesso giorno. Agli occhi di tutti rappresenta Teresa Gullace, massacrata in una simile dinamica a viale delle Milizie, nel quartiere Prati. Anna Magnani si trova nel cortile con tutti i condomini del grande palazzo popolare, riuniti all’aperto con la forza dai nazifascisti. Vede il compagno Francesco arrestato e capisce immediatamente che di lì a poco sarà ucciso. Corre su via Montecuccoli come Teresa, la camera la riprende con un piano sequenza mai sperimentato prima: lo spettatore è sulla camionetta tedesca e la vede colpire quasi in soggettiva e cadere a terra. “Roma città aperta” indugia sulle scene lungo i pianerottoli delle scale, dove si incrociano partigiani, donne, attricette e bambini mutilati, che di nascosto preparano la loro piccola controffensiva.
Si conoscono tutti e si chiamano a gran voce da porta a porta. Romoletto, il bambino che ha perso una gamba sicuramente nei bombardamenti, vuole buttare una bomba dal terrazzo condominiale contro i tedeschi in pieno rastrellamento, così rischia di uccidere tutti gli abitanti del grande palazzo e don Pietro riesce a disarmarlo. Per il battesimo del cinema neorealista, Rossellini sceglie il Pigneto: sono passati solo due anni dai fatti narrati, non vuole raccontare gli eroi dell’antica Roma ma quelli della Resistenza. Aldo Fabrizi è don Pietro, il parroco che paga con la vita il suo appoggio alla causa partigiana, e la parrocchia scelta per il film è proprio Sant’Elena sulla via Casilina. Il palazzo accanto è ancora semidistrutto dalle bombe. In molte sequenze del film non solo è possibile riconoscere la via Casilina e la circonvallazione Casilina, ma anche dettagli sul fondo che, però, sono degni di nota: per esempio durante la conversazione tra Pina e don Pietro lungo la circonvallazione Casilina, è possibile scorgere sullo sfondo villa Serventi, prima che venissero costruiti gli edifici sul fronte strada dall’altra parte del vallo ferroviario.
Il Neorealismo metterà a fuoco, da questo momento in poi, il lato in ombra dell’ascesa verso il boom economico. Accanto a una ricchezza che piano piano torna a circolare, ci sono sempre ancora le borgate, con scenari completamente diversi. Nell’arco di pochi anni, con le sue opere, Pier Paolo Pasolini costringe la borghesia a entrare nelle baracche tra delinquenti, prostitute e bambini sporchi.
(da: La storia del Pigneto, a cura di Gaia Marnetto, Typimedia editore, pp. 156-158).