La Cloaca Maxima, la più antica opera pubblica di Roma
Nella Cloaca Maxima, come Livio (I, 56, 2) per primo la definì, si riconosce la più imponente testimonianza materiale della storia di Roma. L’opera idraulica, nata in età regia come canale di bonifica, con lo scorrere dei secoli assunse una più generica funzione di infrastruttura a servizio di un centro abitato in continua evoluzione e con differenti destinazioni d’uso, su una superficie topografica che si estendeva dai quartieri della Suburra e dell’Argiletum fino al Foro Romano, al Velabro e al Foro Boario. Nel tentativo di ricostruzione del paesaggio della Roma arcaica, il Velabrum minus, la depressione compresa fra Campidoglio e Palatino, descritta da Varrone nel De Lingua Latina come un’area paludosa per gran parte dell’anno, era in origine percorsa da un torrente affluente in riva sinistra del Tevere, spesso identificato come lo Spinon menzionato da Cicerone, le cui acque durante le piene potevano risalire la valle fin quasi all’Argiletum, nell’area che sarà poi occupata dai fori imperiali.
LE ORIGINI DELLA CLOACA MASSIMA
L’utilizzo del foro già a partire dall’inizio del VI secolo a.C., implicò una progressiva modificazione topografica e un’attenta organizzazione dell’idrografia, principalmente finalizzata ad evitare l’impaludamento dell’area tra Campidoglio e Palatino. L’intervento di bonifica avviato da Tarquinio Prisco e completato da Tarquinio il Superbo dovette consistere nel progressivo sollevamento del piano di calpestio, realizzato con ingenti riporti di terreno, mediante i quali il livello di calpestio da circa 7 m fu portato a 10 m s.l.m. Parte integrante del progetto fu la costruzione di un imponente canale di drenaggio, funzionale alla regolamentazione dell’acqua del torrente naturale, alimentato anche dalle sorgenti presenti nella zona, ma soprattutto in grado di ricevere in caso di piena quelle in risalita del Tevere. Nulla si riteneva che fosse conservato dell’opera originaria. Recentemente, un attento esame delle strutture sottostanti il foro ha permesso di ricondurre un lungo tratto della Cloaca Maxima all’impianto originario della fine del VI secolo a.C. Le strutture in questione, realizzate in cappellaccio e più volte rimaneggiate attraverso i secoli, sono riferibili ad un condotto formato da due canali paralleli, separati da un muro mediano, fatto di blocchi parallelepipedi. Le sponde esterne sono costituite nella parte superiore dell’elevato da blocchi disposti in aggetto su quelli sottostanti, a formare una falsa volta. La copertura, non conservata, ma che si deve immaginare composta da una doppia fila di lastre poggianti su un muro mediano e sulle sponde laterali, doveva trovarsi allo stesso livello della pavimentazione del foro, formata a quel tempo da un semplice acciottolato. La possibilità di ricollegare al percorso della cloaca di età arcaica anche altri lacerti di un condotto in cappellaccio, rimesso in luce sul lato settentrionale del foro romano, negli scavi condotti da Giacomo Boni proprio alla fine del XIX secolo, consente di aggiungere un ulteriore nuovo segmento alla conoscenza del tracciato dell’antico canale.
(testo a cura di Elisabetta Bianchi)