La divinazione romana
La divinazione, la scienza che interpreta i segni divini, affonda le sue radici nei più profondi elementi della religione romana. Se la natura è manifestazione del volere degli dèi e il mondo è teatro dei loro interventi, allora risulta fondamentale interpretare i segni che essi inviano, per poter conoscere loro volontà ed ottenere il loro favore. Anche la divinazione, come il resto delle pratiche religiose, dipende dalla necessità di mantenere la “pax deorum”. Grazie a Cicerone, che con il “De divinatione” ci ha lasciato un testo basilare su questo argomento, sappiamo infatti che i Romani suddividevano la divinazione in due categorie: naturale e artificiale. La prima è quella che si attuava attraverso l’intervento diretto della divinità: gli esempi più noti sono quelli degli oracoli e delle sibille. Era il tipo di divinazione più diffusa tra i Greci.
A Roma se ne trovano pochi esempi, ma rientrano in questa categoria i famosi Libri Sibillini, alla cui lettura e interpretazione era preposto il collegio sacerdotale dei decemviri. I Romani e gli Etruschi, nella loro mentalità razionale e pratica, preferivano l’osservazione e l’interpretazione obiettiva dei segni, quindi la divinazione artificiale. Questa consisteva nell’interpretare i segni inviati dalla divinità e necessitava quindi dei sacerdoti, che erano gli esperti, i tecnici specializzati nel settore. I segni potevano essere di tre tipi: il volo e il canto degli uccelli, le viscere degli animali, i prodigi. Per gli auspicia e gli auguria (probabilmente entrambi derivati dal tema *au- di avis = uccello) erano competenti gli àuguri. Nella interpretazione delle viscere erano invece maestri insuperati gli aruspici etruschi, che per secoli furono chiamati a Roma ogni volta per consultazioni in caso di necessità. Solo nel I secolo d.C., sotto l’imperatore Claudio, fu istituito l’Ordo Haruspicum LX, l’ordine (non un collegio) degli aruspici, in numero di 60. Per l’interpretazione dei prodigi erano competenti ben tre dei quattro collegi sacerdotali, che il Senato consultava a seconda dei casi: i pontefici, gli àuguri e i decemviri. Nella religione romana i prodigi non predicevano l’avvenire, ma segnalavano la collera degli dèi o un loro avvertimento. Conseguenti alla divinazione erano quindi i riti espiatori, perché, una volta capiti il volere e l’ira degli dèi, era necessario placarli e riguadagnare la loro benevolenza.
(da: ROMA ARCHEOLOGICA, itinerario n. 20, Elio de Rosa Editore, p. 28).